Su Il Tascabile Anna Castelli, una ricercatriche che si occupa del rapporto tra arte e antropologia, offre alcuni spunti di riflessione sulla questione dei resti umani esposti nei musei europei.
Nel suo libro Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati (Mimesis 2021) Giulia Grechi racconta la storia della restituzione ai nativi della Nuova Zelanda delle sedici teste Maori conservate nelle collezioni museali francesi. Si tratta di teste mummificate e tatuate, chiamate Mokomokai, che appartenevano sia agli antenati che ai capi di clan nemici. Nel primo caso venivano custodite in scatole finemente intagliate, nel secondo esposte come trofei sulla pubblica piazza e scambiate con i rivali nei momenti di pace. All’inizio del diciannovesimo secolo, con l’arrivo degli europei in Nuova Zelanda, le teste divennero merci di scambio, barattate con i bianchi in cambio di armi da fuoco e oggetto di collezionismo.
Nell’Ottocento in Europa le teste tautate dei Maori erano molto richieste e ne nacque un commercio che portò i capi dei clan a far tatuare il volto degli schiavi per poi venderne la testa (e lo stesso accadde a degli europei).
Dove risiede il valore artistico aggiunto di un resto umano ? Chiaramente nell’essere esposto in un museo. Secondo l’antropologo Renato Rosaldo, che per anni ha vissuto con gli Ilongot, tagliatori di teste dell’isola di Luzon nelle Filippine, il museo viene considerato “una rappresentazione fedele delle etnografie classiche e delle culture che esse descrivono”. Rosaldo sostiene che i musei operino una mummificazione: “Il museo congela il tempo, le culture appaiono immobili”. Le teste diventano quindi “oggetto estetico degno di essere contemplato”.
Tuttavia un buona percentuale di visitatori inizia a considerare ogni resto umano conservato all’interno dei musei una violazione della dignità umana. L’autrice conclude con qualche dubbio su come dovrebbero comportarsi i musei nel loro processo di rinnovamento.
Nel dibattito attuale sul “che fare” dei musei, sulla loro fondamentale macchia di essere portatori di una cultura neocoloniale, sul bisogno delle restituzioni, sul riscatto che i musei devono pagare verso i popoli indigeni, sul fatto che si debba fare giustizia, occorre fermarsi un attimo: siamo sicuri che la fretta per cui vogliamo fare la cosa giusta non si ribalti in una ridicola incapacità di metterci davvero in relazione con altre culture? Porsi questa domanda è, a mio avviso, l’unico modo corretto con cui affrontare oggi, con l’imbarazzante ritardo in cui ci troviamo, questa complicata sfida del ripensare i musei della contemporaneità.
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