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Lo statalismo delle élite e le ragioni di un «liberismo populista»

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Marco Faraci, in un articolo su Atlantico Quotidiano, racconta di un apparente paradosso del liberismo e delle prospettive future per l’affermarsi degli ideali di libertà economica e di concorrenza.

Se il mercato premia chi parte con più risorse economiche, chi è più capace, chi ha più strumenti culturali per capire l’oggi, come mai le élite sposano una versione più statalista della società? Più prosaicamente, come mai i benestanti spesso votano per Biden negli Stati Uniti e per il Partito Democratico in Italia?

Per Faraci la spiegazione è da ricercare in un «vantaggio competitivo» che gli ottimati contemporanei hanno nel navigare le mille regole della macchina pubblica, alla fin fine assicurandosi una continuità di reddito e posizioni privilegiate in settori con bassa o nessuna concorrenza.

In definitiva, quasi sempre oggi per “chi sta bene” non esistono particolari ragioni di sostenere riforme liberali. Anzi, in verità, più statalismo c’è e meglio è.

A questa pars destruens Faraci ne aggiunge una prospettica. Per affermarsi, il liberismo deve ripartire dagli esclusi, uscire dai convegni e sporcarsi le mani: un «liberismo populista» appunto, che parli una lingua comprensibile a chi è fuori dal «giri giusti».

Naturalmente, non è una scommessa facile perché presuppone di poter convincere i “senza rete” che una loro rivincita è possibile solo “riaprendo i giochi”, come solamente può fare una potente iniezione di economia liberale. Meno stato, meno leggi, meno tasse e più mercato.

Foto: Addizionatrice meccanica, da Wikimedia Commons.


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