In treno mi metto a leggere il Dizionario dei simboli di Juan Eduardo Cirlot. C’è scritto che l’immersione nelle acque significa rinascita e nuova circolazione non solo nel battesimo cristiano ma anche in molte altre tradizioni tra loro lontanissime: nel linguaggio geroglifico, nella cosmogonia dei popoli mesopotamici, nelle antiche religioni irlandesi; le acque sono simbolo delle potenzialità che precedono “ogni forma o creazione”. C’è scritto che nella cultura vedica le acque sono dette mātṛtamāṛ, “le più materne”, perché “in principio tutto era come una distesa di acqua senza luce”.
Tra qualche ora mi troverò a mollo in una distesa di acqua senza luce, in una stanza completamente buia, immerso in una vasca di deprivazione sensoriale: una cazzata da fricchettoni o un’esperienza unica e appagante, a seconda che io voglia dare ascolto al mio eterno scetticismo oppure ai resoconti degli entusiasti che mi hanno raccontato delle loro vasche e che alla fine mi hanno convinto a provarne una.
Non mi sono voluto informare troppo sulla storia di questi aggeggi, perché so che se ne avessi letto a fondo le origini e il funzionamento avrei cercato in ogni dettaglio le prove della loro inefficacia. So però che sono state inventate, almeno nella loro versione moderna, da qualche scienziato negli Stati Uniti, nel dopoguerra, per lo studio degli stati alterati di coscienza. E che sono state adottate poi dai centri benessere, commercializzate come un bagno destinato al rilassamento e l’introspezione. So poi che queste speciali vasche sono riempite di acque sature di sali minerali e che vengono mantenute costantemente a temperatura corporea. Il solfato di magnesio ti fa galleggiare sul pelo della superficie, come sul Mar Morto, e la giusta temperatura ti fa dimenticare di essere immerso in un liquido: non senti nulla, devi arrivare a non sentire nulla, tutto è ideato perché il tuo cervello non riceva più, per un’ora o poco meno, alcun tipo di stimolo sensoriale.
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