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Arte e cultura del popolo Sámi [IT+EN]

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Il Padiglione dei Paesi Nordici alla 59. Biennale d’Arte di Venezia assumerà un’identità temporanea inedita, prendendo il nome di Padiglione Sámi: ne parla Artribune.

La Scandinavia e le fiabesche regioni dell’Artico raccontano una storia antichissima, ma certi capitoli legati al colonialismo nordico sono ancora poco noti, forse perché troppo distanti dai succitati cliché, o forse perché la versione più conosciuta della storia è quella che di regola scrivono i “vincitori”. Fatto sta che, in Italia, arte e cultura del popolo Sámi sono rimaste a lungo trascurate e immerse in una coltre di nebbia.
Unica popolazione indigena riconosciuta in Europa, i Sámi hanno abitato fin dall’antichità le regioni della Fennoscandinavia e identificano nel Sápmi la loro patria, un territorio transnazionale che comprende le regioni settentrionali di Norvegia, Svezia, Finlandia e la penisola russa di Kola. Parlano almeno dieci dialetti diversi a seconda del luogo di provenienza e costituiscono una comunità che conta circa 55mila persone soltanto in Norvegia.

I Sámi hanno lottato per salvaguardare i loro diritti, perché in Norvegia sono stati a lungo discriminati e hanno subito un costante tentativo di “norvegesizzazione” forzata. Le cose hanno iniziato a cambiare con la Controversia di Álta (1979-1981) quando attivisti Sámi e ambientalisti si sono opposti alla costruzione di una diga e di una centrale idroelettrica.  Fu un momento di svolta per le politiche energetiche norvegesi che nello stesso tempo portò al riconoscimento dei diritti del popolo Sámi e all’istituzione nel 1989 del Parlamento Sámi (Sámediggi).

Gli artisti Sámi sono stati, e continuano a essere, profondamente impegnati nei movimenti di emancipazione politica e culturale del Sápmi e l’arte ha storicamente rappresentato il loro mezzo di espressione più importante per comunicare identità, idee e valori al di fuori dei territori del nord. Eppure, la ricchezza della loro arte fu per anni raccontata sommariamente o addirittura oscurata del tutto nei manuali di storia dell’arte; opere e manufatti, salvo rarissime eccezioni, furono esposti unicamente in musei etnografici, tanto in Norvegia quanto nei vicini Paesi scandinavi.

Ma da una decina d’anni l’atteggiamento verso la cultura e l’arte Sámi sta profondamente cambiando.

Norsk Folkemuseum e Nasjonalmuseet di Oslo, ovvero due dei musei più importanti della Norvegia, sono coinvolti direttamente in questo processo di autentica emancipazione culturale del Paese. Mentre il primo ha avviato nel 2012 un ampio programma di restituzioni del patrimonio culturale e artistico Sámi verso i territori di origine (progetto Bååstede), il Nasjonalmuseet – il museo nazionale norvegese di arte, architettura e design – ha inaugurato un programma di acquisizioni volto a colmare le evidenti lacune fin qui emerse rispetto all’arte Sámi. Alle opere di John Savio e Iver Jåks, già presenti in permanente, si sono aggiunte dal 2017 anche quelle di Hans Ragnar Mathisen, Britta Marakatt-Labba, Aslaug Magdalena Juliussen, Synnøve Persen, Inger Blix Kvammen e Máret Ánne Sara, quasi tutte caratterizzate da un forte contenuto politico. In oltre duecento anni di storia del Nasjonalmuseet, le opere di questi artisti verranno esposte per la prima volta nella nuova sede museale, che aprirà al pubblico nel 2022 con una collezione più inclusiva, a segnare un cambio di passo e una nuova sensibilità verso le differenze culturali nazionali, quali parti integranti e imprescindibili dell’identità scandinava.

ArtTribune propone quindi un’interessante intervista a Katya Garcia-Ántón, curatrice del Padiglione Sámi e storica direttrice di OCA, fresca di nomina come prossima direttrice del Nordnorsk Kunstmuseum di Tromsø.

Quali sono le tematiche che più ti hanno colpito in questi anni di collaborazione con artisti e colleghi situati dentro e oltre i confini del Sápmi?
Il perdurare delle conseguenze lasciate dal colonialismo, tanto nelle comunità indigene locali quanto nella nostra società contemporanea, rientra tra le cose più spiazzanti che ho potuto notare. Il processo di emancipazione da una cultura coloniale prevaricante ha caratterizzato la storia recente del Sápmi ed è una sfida transgenerazionale che le comunità Sámi stanno ancora affrontando, anche in un Paese riconosciuto per essere un pioniere del benessere sociale, dell’uguaglianza e dell’ecologia come la Norvegia. Ci sono ferite ancora aperte, tracce di un passato prossimo che le nuove generazioni di artisti affrontano con forza e determinazione, come già avevano fatto gli artisti del collettivo Mázejoavku nel 1978.

Per un approfondimento, Le journal International racconta del popolo Sámi e della sua ricerca di una identità.

Spirituality was very important in their daily lives, and strengthened their relationship with nature. The Sami believed the world consisted in the world of gods, the real world and the world of the dead. The sun was believed to be a primordial goddess, its divinity seeping into many of the elements in nature, such as the wind, the moon, thunder or certain animals, like the bear.

The spirituality revolved around the shaman. The shaman was a prophet and a doctor as well as the bridge between the real world, the world of gods and the world of the dead. He passed into the different worlds through a trance, which he entered by beating on his tambour and by yoiking. The yoiking is considered to be the oldest form of music in Europe. The yoiks are songs that express emotions and celebrate the memories of places, happenings and people.

Furthermore, the Sami have their own language, which is different depending on the region they live in: Eastern Sami, Central Sami and Southern Sami. These three languages are in turn made up of nine different dialects.

La presentazione del Padiglione Sámi alla prossima Biennale: Biennale Arte 2022 | Paesi Nordici: aabaakwad 2022 “The Sami Pavilion” (labiennale.org)


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