A cura di @werner58.
Neoliberista, in America, non è un insulto. O almeno non lo era nel 1982, quando una copertina di Esquire ritraeva sotto il titolo “The neoliberal club” quasi tutte le personalità emergenti del partito Democratico: fra gli altri, c’erano un certo Bill Clinton e un tale Al Gore.
Il neoliberismo, per come ce lo descrive Matthew Stoller, fellow dell’Open Markets Institute, è una ideologia politica che mira a migliorare il benessere dei cittadini-consumatori con una concertazione fra lavoratori, grandi strutture pubbliche e grandi gruppi commerciali – questi ultimi visti come l’unico mezzo per organizzare in modo efficiente la produzione. La più grande differenza con la precedente tradizione della sinistra “populista” è l’indifferenza, se non la benevola accettazione, verso i monopoli.
Stoller ne individua l’ascesa intorno al 1975: quando una nuova generazione di politici democratici, che grazie alle leggi del New Deal non aveva conosciuto i soprusi del potere privato (l’arbitrio dei robber barons, i tassi d’interesse da usura della Gilded Age) volle combattere la violenza del potere pubblico: il razzismo e l’omofobia istituzionali, la corruzione a Washington, la polizia che sparava sugli studenti in protesta, l’apparato militare che li aveva mandati a morire in Vietnam a decine di migliaia.
With key intellectuals in the Democratic Party increasingly agreeing with Republican thought leaders on the virtues of corporate concentration, the political economic debate changed drastically. Henceforth, the economic leadership of the two parties would increasingly argue not over whether concentrations of wealth were threats to democracy or to the economy, but over whether concentrations of wealth would be centrally directed through the public sector or managed through the private sector—a big-government redistributionist party versus a small-government libertarian party. Democrats and Republicans disagreed on the purpose of concentrated power, but everyone agreed on its inevitability.
I “Watergate babies” hanno realizzato una rivoluzione sociale, creando in pochi decenni quella che forse è la società più aperta e tollerante della storia; ma il loro disinteresse verso le concentrazioni di potere finanziario ha anche permesso, secondo Stoller, che rialzassero la testa alcuni dei mali contro cui i populisti degli anni ’20 e ’30 avevano combattuto e vinto. La sua lunga disamina di questa traiettoria politica e ideologica, uscita per The Atlantic, si chiude con un appello a imporre nuovamente una vera competizione in un mondo industriale e finanziario iper-centralizzato.
Immagine da pxhere.
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