In un lungo articolo diviso in due parti – uno, due – sulla rivista Grey Panthers si analizza il fenomeno del doppiaggio, in particolare con riferimento alle sale cinematografiche.
L’approccio dell’autore è senza dubbio critico.
Persino gente con una certa cultura, che frequenta le sale senza scorte di coca-cola e pop corn, è convinta che sia preferibile sentir recitare George Clooney con la voce di Francesco Pannofino piuttosto che con quella di… George Clooney. Un mantra che perdura nel tempo, un passaparola forse inconscio per autoconvincerci che questo sia il modo migliore e più corretto per fruire il cinema. Tutto il cinema: da quello commerciale a quello d’autore. Cosa più vicina ai misteri della fede che a un approccio razionale. Un paragone per capirci: prendiamo un cultore della pittura, persona dotta e sensibile che non si perde una mostra, visita musei, pinacoteche e gallerie. Cosa direbbe questa stessa persona se all’ingresso, con il biglietto, la guida (o chi per lui) gli desse un paio di occhiali da sole e gli intimasse: «Lei non può entrare senza indossarli. E guai se li toglie durante la visita».
Si parte da una lunga disamina delle origini e della storia del doppiaggio, e poi un tentativo di smantellamento delle principali ragioni addotte da chi invece il doppiaggio lo apprezza.
Il pubblico vuole così
Falso anche questo. È il classico cane che si morde la coda. Vuole così solo perché non ha alternative. In Francia l’abitudine è stata creata con politiche di stato, direttive delle associazioni ecc. Negli anni ’70 del secolo scorso una serie di leggi ha garantito la sopravvivenza della cinematografia nazionale imponendo alla distribuzione una serie di quote obbligatorie. Il 30% della programmazione annuale doveva essere costituita da film francesi o coprodotti. E quelli d’importazione avere appunto la doppia versione. In Italia non è successo niente del genere con il risultato che si è affossata l’industria nazionale a favore di una valanga di ciarpame stelle&strisce doppiato a oltranza.
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