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La mutazione di Ebola

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A cura di @Baco

L’epidemia di Ebola che ha duramente colpito l’Africa negli ultimi anni sarebbe stata favorita da una mutazione genetica: a sostenerlo sono due studi indipendenti, diretti rispettivamente da Jonathan K. Ball dell’Università di Nottingham, in Regno Unito, e da Jeremy Luban dell’University of Massachusetts Medical School a Worcester, negli Stati Uniti. Secondo i ricercatori il virus, durante l’epidemia in Africa occidentale, avrebbe acquisito una maggiore capacità di infettare le cellule umane riuscendo a infettare oltre 28.000 persone e causando più di 11.000 morti.

Ebola Virus (EBOV), agente eziologico di una pericolosa e spesso mortale febbre emorragica, è stato responsabile di svariate infezioni a carattere epidemico tra la metà degli anni ’70 e i primi anni 2000,  comunque ristrette a una specifica area geografica e con un relativamente basso numero di casi e decessi. Al contrario l’ultimo evento si è dimostrato insolitamente grave e letale, spingendo i ricercatori ad avanzare ipotesi sulle ragioni di questo andamento. Le ricerche hanno evidenziato che, in aggiunta a un generale peggioramento delle condizioni socio-sanitarie nell’area colpita, il virus nel triennio 2013-2016 presentava delle mutazioni genetiche forse correlate con un aumento della virulenza.

Analizzando il genoma di campioni di Ebola prelevati in diversi momenti e in  differenti focolai dell’epidemia, e confrontandoli con il virus trovato in esemplari di pipistrelli (l’animale considerato il più probabile ospite originario del virus) entrambi i gruppi di ricerca hanno identificato una specifica mutazione. Questa mutazione è a carico di una glicoproteina, GP-A82V, che è quella che permette al virus di agganciarsi alle cellule dell’ospite e quindi penetrarvi. Per suffragare questa ipotesi, il gruppo di Bell ha creato uno pseudo-virus (entità simili ai virus che condividono con essi parte del materiale genetico e alcune proteine del rivestimento, ma non la capacità di determinare l’insorgenza di una patologia) che presentava sul proprio capside le proteine mutate ed ha dimostrato che queste proteine rendevano più agevole per il virus infettare le cellule dei primati (e dell’uomo), mentre diminuivano l’affinità per le cellule di pipistrello.

Ne parla un articolo su Le Scienze.

 

Immagine da Wikimedia Commons


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