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Le malattie mentali nell’università [EN]

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Su suggerimento di @Spi.

Un articolo del Guardian dello scorso marzo è tornato a circolare ripetutamente sui social network tra membri dell’accademia. Racconta l’altro lato della medaglia, poco noto e spesso deliberatamente nascosto, della ricerca della produttività nell’accademia.

Molte persone (si stima anche il 50% del totale), soprattutto durante dottorato e PostDoc, soffrono di una qualche forma di depressione, mancanza di sonno, alcolismo o istinti suicidi. Il principale fattore additato è l’eterna richiesta ad eccellere: si viene valutati solo per il proprio output scientifico e la capacità di attrarre fondi, ed entrambi, inevitabilmente, non sono mai percepiti come sufficienti. Due altri fattori cruciali che l’articolo sottolinea sono la cultura dominante per cui questo stress continuo è normale (“se non puoi reggerlo, non dovresti essere qui”) e l’incitamento a tutto il personale a eliminare la barriera tra vita privata e lavorativa (definito dalla frase “fare ciò che ami”), che porta a lavorare di più e sette giorni a settimana.

Verrebbe da aggiungere alla lista anche lo stress causato dalla ricerca continua del lavoro: l’attuale mercato nel mondo accademico fa sì che solo tra il 10 e il 25% delle persone che hanno ottenuto un dottorato riusciranno ad accedere ad un lavoro di ricerca a tempo indeterminato, e spesso dopo anni di borse post-dottorali e contratti simili. Questo obbliga a sentirsi continuamente sotto osservazione, interferisce con lo sviluppo di progetti a lungo termine e, appunto, rischia di sovraccaricare di stress i ricercatori.

Immagine da flickr


Dai commenti:
@Orgo riporta tre testimonianze: due lettere interne di gruppi di laboratori chimici, e un articolo lungo ma interessante dal New York Times. Quest’ultimo riporta di un caso di suicidio ad Harvard.
@Claudio Corti suggerisce il post di un fisico americano, Jonathan I. Katz, intitolato Don’t become a scientist!. Piuttosto adeguato al contesto.


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