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Ruta Meilutyte e il diritto di fermarsi

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Francesco Caligaris su Rivista Undici ha intervistato Ruta Meilutyte, vincitrice delle Olimpiadi a Londra quando aveva solo quindici anni: dopo molti successi, attraversò una piccola crisi seguita da depressione e ritiro. Salvo poi ritornare a gareggiare.

Quando hai iniziato ad accorgerti che qualcosa in te non andava? È stato un crescendo o la depressione è arrivata tutta insieme?

Innanzitutto voglio chiarire che non mi hanno mai diagnosticato ufficialmente la depressione, ma penso che sia accaduto qualcosa nel 2013, dopo i Mondiali di Barcellona. Avevo vinto così tanto in così poco tempo che non vedevo l’ora di scoprire cosa sarebbe venuto dopo. A un certo punto non ho più capito che piega stesse prendendo la mia vita. C’era come un non detto tra la gente secondo cui dovevo vincere per sempre, perché non c’erano motivi per sostenere il contrario. È stato un processo molto graduale e penso, poco alla volta, di aver smarrito il senso del perché facevo nuoto, anche a causa delle aspettative delle persone intorno a me. Mi sono davvero sentita persa. Ho avuto dei disturbi alimentari, altre cose hanno cominciato a venire a galla, e stavo spingendo il mio fisico a un livello tale che a un certo punto non ce l’ha più fatta. Il mio corpo ha provato ad adattarsi ai cambiamenti della mia vita, alla mia crescita, alla mia pubertà, ma io non ho mai avuto il tempo di sedermi e domandarmi: ma io cosa provo? cosa sento? cosa voglio? Pensavo solo ad andare avanti, ero sempre impegnata ad allenarmi, viaggiare e gareggiare. È stato un periodo molto intenso. Tutto questo mi ha provocato un forte burnout e ho iniziato ad andare in terapia.

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Hai imparato ad ascoltare il tuo corpo?

Ho imparato ad ascoltarlo e a fidarmi di lui, perché so che se lo spingo troppo oltre posso avere di nuovo problemi. Ogni segnale che mi manda è un segnale a cui devo prestare attenzione. Sono fortunata perché grazie all’esperienza della prima parte della mia carriera oggi posso scegliere se andare ad allenarmi o no. E non devo spiegare ogni volta a me stessa e all’allenatore perché non voglio andarci.

[…]

Secondo te perché così tanti nuotatori soffrono o hanno sofferto di problemi di salute mentale?

Il nuoto è uno sport molto faticoso, richiede molto a livello fisico, i nuotatori si allenano duramente e penso che qualche volta gli allenatori non si accorgono che il riposo è fondamentale. In più il nuoto è uno sport individuale, quindi sei sempre da solo con i tuoi pensieri, e qualche volta penso che questo non ci aiuti, perché avremmo bisogno di condividere con qualcun altro le nostre sensazioni, dovremmo fare comunità. Questo nel nuoto si fa ancora poco. Si parla poco di salute mentale.

Perché?

Forse perché mostrarsi vulnerabili e non sentirsi ok con la propria mente è ancora considerato un tabù, e qualche volta per gli allenatori e anche per i nuotatori stessi gareggiare e vincere una medaglia diventa prioritario. E si dimentica tutto il resto.

L’intervista tocca anche altri temi: il doping, l’invasione dell’Ucraina, il ruolo degli atleti nella società.


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