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Statue

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Seni sodi, separati dalle ossa dello sterno che spingono contro la pelle, tesa, sicuramente bianca. Il corpo, nella sua stasi, genera una forza bellicosa e lo sguardo è accigliato, venato da una leggera colpevolezza. Nella mano destra, il capo mozzato di un giovane uomo.

Così è raccontata Medusa nella statua realizzata dall’artista Luciano Garbati e situata, dal 13 ottobre 2020, davanti alla sede del tribunale penale della contea di New York. La scelta del luogo non è stata casuale: quello stesso tribunale è stato teatro delle prime manifestazioni del movimento #metoo e lì sono stati processati diversi casi di abusi, tra cui quello di Harvey Weinstein.

Le statue possono assumere molte forme. Possono essere custodi del Tempo e della Storia, accogliendo le versioni che una comunità ha deciso di dare al proprio passato. Possono essere guardiane, proteggere gelosamente interpretazioni faziose ed evitare ogni possibile rilettura alternativa. Possono essere medici di frontiera e lenire con la loro sola presenza le ferite traumatiche che ogni società porta con sé. Possono essere la somma di queste accezioni o nulla di tutto ciò, non significando altro se non le proprie qualità esteriori.

Il paradigma dell’intangibilità si sovverte quando la statuaria si discosta da forme di celebrazione pubblica e si addentra nel campo del cambiamento climatico. Qui le opere si fanno interattive; si sciolgono e affogano nell’acqua, affermano la loro natura simbolica attraverso l’alterazione della materia della quale sono composte. Grazie a tale linguaggio, le opere intessono un rapporto plurisensoriale con il fruitore che si trova a dover recepire un linguaggio disperato, profondamente radicato nel trauma.

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