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Una visione d’insieme sulle università italiane (e qualche dato)

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Su suggerimento di @alessandromeis, @BabylonSystem, @Lorella Cucchiaini e @Frank Underwood.

 

Giuseppe De Nicolao, su ROARS, riprende la classifica ARWU e ne ribalta i risultati, inserendo un unico elemento di calcolo: la spesa delle università.

L’analisi conclude:

  1.  sufficiente tener conto di un criterio importante che è stato sempre ignorato (le spese) per ribaltare le classifiche;
  2. non si possono confrontare gli atenei italiani con le “World Class Universities”, senza mettere a confronto le risorse finanziarie;
  3. persino una classifica pseudoscientifica come la ARWU più che testimoniare il ritardo e l’irrilevanza degli atenei italiani, finisce per confermare quello che dicono le statistiche bibliometriche, ovvero che il sistema universitario italiano, pur sottofinanziato, nel suo complesso non è meno efficiente di quelli delle maggiori nazioni straniere.

Quest’articolo ha scatenato varie polemiche e critiche, che vengono sintetizzate (e anch’esse criticate) in questo post, dove tra l’altro si riprende la polemica – ormai quasi vecchia – di Feltri sulle materie umanistiche vs. scientifiche che parte anche dal documento CEPS sul ritorno economico degli investimenti universitari.

A tal proposito, questo articolo de Linkiesta è quasi una “testimonianza”, ma meglio un racconto, del lavoro che un ricercatore in filosofia fa, soprattutto qual è il suo scopo. Un articolo che descrive come

La capacità di sviluppare una visione di insieme che vada oltre i dettagli normativi (pur sacrosanti) e settoriali analisi econometriche si impara anche studiando i grandi sistemi filosofici. Cogliere un disegno che comprenda poi i singoli aspetti e allo stesso tempo inquadrare il problemi all’interno della sua evoluzione storica è per me una delle grandi mancanze del dibattito contemporaneo.

A questo stesso proposito, il Sole 24Ore si inserisce nel dibattito, spiegando come e perché danno lavoro. La risposta è la solita: con le materie umanistiche «si impara a pensare e a affrontare problemi complessi». Soft skills, tecnologie, carriere internazionali. Agenzie e centri di ricerca ci spiegano perché una laurea in lettere e filosofia “serve” nel mercato di oggi.

Come spiega al Sole 24 Ore Lorenzo Tomasin, ordinario di filologia romanza e storia della lingua italiana all’Università di Losanna, «una laurea umanistica non “insegna” un lavoro ma un metodo di pensiero, uno strumento per affrontare problemi. La conseguenza è chi si iscrive a un corso può integrare la preparazione con un supplemento di formazione autonomo». C’è chi interpreta la scelta secondo un rapporto causa-effetto: se si studiano lettere o filosofia, bisogna scommettere solo sui – tutt’altro che facili – terreni di insegnamento e ricerca. «L’Italia è irrigidita su un modello che aveva senso – e forse – 50 anni fa, quando c’erano determinate condizioni. Ma questa linearità così esclusiva non funziona. Nell’università non si “impara” un mestiere: se la guardassimo così, quasi tutti i corsi sarebbero inutili» dice Tomasin.

 

Immagine CC BY 2.0 di riccardo f. m. da flickr


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