In sintesi, secondo i giudici, è vero che i carabinieri aprirono un “canale di comunicazione” con Cosa nostra, ma si trattò solo di una “improvvida iniziativa” portata avanti per “fini solidaristici” ovvero “la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato“. In pratica parlarono coi mafiosi, ma per far cessare le stragi. E senza avallo della politica, visto che i giudici scrivono che sebbene quella dei carabinieri “fosse molto più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, essa non era affatto diretta a creare le basi di un accordo politico”.
STATO MAFIA, L’APPELLO – Nella sentenza di secondo grado i giudici della corte d’Assise d’Appello di Palermo attaccano i colleghi per il trattamento riservato all’ex presidente della Repubblica e all’ex guardasigilli. Poi, però, nelle oltre tremila pagine ricostruiscono il ruolo attivo giocato da entrambi sul fronte carcerario. L’ex capo dello Stato “ebbe un ruolo propulsivo nella decisione di sostituire” l’ex capo del Dap Amato “con una personalità di altro stampo che non aveva certo fama di essere uno strenuo difensore del carcere duro”. E l’ex ministro non rinnovò 334 provvedimenti di 41bis a detenuti mafiosi per lanciare un “preciso segnale”.
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