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Il fenomeno Pussy Riot

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Su Il Tascabile Giorgia Maurovich tratteggia la storia del collettivo di protesta russo Pussy Riot e sulle differenze tra come sono state percepite in patria e altrove.

Gli eventi del 21 febbraio sono noti: alcuni membri del collettivo entrano nella cattedrale, salgono sulle scale davanti all’altare, indossano i passamontagna e iniziano a ballare. Vengono immediatamente fatte uscire da due addetti alla sicurezza; l’azione è durata poco meno di un minuto e le registrazioni della performance sono quasi inutilizzabili, ma la sera stessa Nadja, Kat e Marija riescono a finire di montare il video con altri spezzoni filmati in precedenza e caricarlo sul web. Il contesto culturale è ben visibile nell’architettura del pezzo: tra citazioni a Rachmaninov e riferimenti alla tradizione artistica dell’azionismo russo e alla religione ortodossa, il gruppo invoca la Vergine Maria per esortarla a diventare una femminista e liberare la Russia da Putin.

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L’opinione pubblica era unanime nel portare avanti una retorica lassista e infantilizzante, che silenziava il vero movente della performance (generalmente ritenuta offensiva e di pessimo gusto) a favore di una lettura identitaria che privava le imputate della loro autonomia. Nadja e Marija vennero mitizzate, erotizzate e feticizzate nel loro ruolo di giovani donne e madri, molti furono gli articoli che impiegavano un lessico allusivo (quando non esplicitamente osceno) e ogni tentativo di lanciare un messaggio, come lo sciopero della fame o l’attivismo per i diritti delle detenute, veniva spogliato del suo contenuto politico e ricondotto superficialmente all’avvenenza delle tre donne.

La reazione dei Paesi occidentali fu diametralmente opposta. Il processo alle Pussy Riot divenne un caso politico, ma per i motivi sbagliati: venne letto non come una meditazione sulle ingerenze della Chiesa in politica o sugli aspetti problematici degli assetti correnti, ma come una questione di libertà di parola che, in continuità con la narrazione della Guerra fredda, operava una contrapposizione netta tra un Occidente laico, liberale e civilizzato e una Russia che appariva ancora come un’autocrazia repressiva. L’ingiustizia percepita dai media occidentali portò avanti una narrazione, specialmente negli Stati Uniti, che vedeva le tre donne come martiri della libertà di parola in uno Stato illiberale, ed era ben diversa dal dibattito pubblico che si era aperto in Russia sulla reputazione delle forze dell’ordine, sui limiti o meno dell’arte e sull’ambivalenza del sistema penale in base ai ruoli di genere.


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