Su Il Tascabile Paolo Bosca in un lungo articolo offre punti di riflessione su un fenomeno che abbiamo tutti, almeno qualche giorno dell’anno, sotto gli occhi ma che sembra ineluttabile e senza nulla di positivo: l’urbanizzazione, l’agricoltura intensiva e l’industrializzazione sono la causa dell’abbandono di migliaia di ettari di terreni agricoli ogni anno in Italia. Dal 1990 al 2010 la Superficie Agricola Utilizzata (SAU) in Italia è calata di circa 2.200.000 ettari.
Come si capisce immediatamente, parlare solamente in termini di risvolti “positivi” o “negativi” significa disegnare un perimetro troppo stretto per comprendere il fenomeno. L’abbandono del territorio in aree non pianeggianti porta di sicuro un effetto negativo sulla produzione di biodiversità agricola, perché la domesticazione di aree di terreno difficile implica molto spesso l’uso di varietà autoctone, più adatte ad essere coltivate dove suolo e condizioni climatiche sono particolarmente ostici. Oltre a questa perdita, l’abbandono delle coltivazioni diffuse che si praticano nei territori più impervi dal punto di vista orografico significa anche l’abbandono di coltivazioni meno legate a forme di produzione puramente tecnica (anche solo per il fatto che molte macchine funzionano solo su territori pianeggianti) e con metodi di lavoro mediamente più sostenibili. Tra gli effetti positivi c’è invece ovviamente il ritorno di ampi spazi agricoli a uno stato che potremmo definire, se non naturale, almeno intermedio tra il ciclo autonomo della natura primaria e quello indotto o comunque pilotato della coltivazione umana.
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