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Il buon latte crudo di una volta

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Il resoconto annuale di Slow Food Trentino Alto Adige che ha  presentato delle relazioni a favore del consumo di latte crudo e dei prodotti da esso derivati, pubblicata dal quotidiano online ilDolomiti, è stato seguito da un successivo articolo relativo alle proteste di Giovanni Battista Maestri, padre un bambino di tre anni caduto in stato vegetativo dal 2017 a seguito del consumo di formaggio da latte crudo.

Un articolo di Dario Bressanini dal titolo Il buon latte crudo di una volta, pubblicato nel 2008 sul suo blog Scienza in Cucina, parla del consumo di latte crudo e dei rischi storicamente ad esso associati.

Si definisce “latte crudo” il latte vaccino, ma anche ovino o caprino, che dopo la mungitura non ha subito nessun tipo di trattamento termico per eliminare i contaminanti, batterici o virali, eventualmente presenti.

I trattamenti termici cui può essere sottoposto il latte (o altri liquidi alimentari) sono fondamentalmente due: la pastorizzazione e la sterilizzazione. La pastorizzazione tipicamente prevede che il latte venga portato ad una temperatura di 72-80° C per 15-20 secondi (procedimento HTST), mentre la sterilizzazione prevede una temperatura di circa 120-140° C per 2-4 secondi (procedimento UHT). La pastorizzazione permette l’eliminazione di oltre il 90% dei batteri presenti nel latte (ma non delle spore batteriche), mentre la sterilizzazione permette l’eliminazione anche delle spore batteriche, portando quindi la durata del latte, adeguatamente confezionato e conservato, dai pochi giorni del latte pastorizzato fino ai sei mesi del latte UHT.

Quindi i trattamenti termici permettono al consumatore di avere un latte più sano, con una maggiore durata e un minore rischio per la salute. Tutto questo a scapito delle caratteristiche organolettiche? È vero che il latte che ha subito un trattamento termico “è meno buono”? Beh… no.

La migliore qualità organolettica attribuita al latte crudo, in effetti, non dipende dal fatto che questo non subisce trattamenti di pastorizzazione, ma semmai dipende dal tipo di alimentazione delle bovine da latte, dal periodo della mungitura, dall’età delle bovine, etc.

Louis Pasteur nel 1866 aveva mostrato definitivamente che riscaldare a temperature superiori ai 60 °C per un certo tempo sanificava il vino e impediva che funghi e batteri si sviluppassero, alterandone le proprietà e facendolo andare a male. In seguito applicò la sua scoperta anche alla produzione della birra, addirittura brevettando un processo di produzione.

Pasteur non applicò la sua scoperta al latte e si dovette aspettare almeno altri 30 anni prima che la pastorizzazione venisse accettata perché l’opposizione alla pastorizzazione era molto forte, e pare che alcune aziende addirittura lo pastorizzassero in segreto.

Nell’articolo del suo blog, Bressanini ricorda che prima della scoperta di Pasteur, l’unica possibilità di consumare il latte era utilizzarlo crudo, con tutti i rischi del caso: il latte, per le sue caratteristiche intrinseche, è un ottimo terreno di coltura per i batteri, e pur venendo secreto sterile, può essere contaminato già durante la mungitura per la presenza di batteri nei dotti galattofori della mammella o per contaminazioni ambientali di varia natura.

In assenza di misure preventive il latte, quindi, poteva diventare veicolo di patologie molto serie, come quella causata dal Mycobacterium tubercolosis, responsabile della tubercolosi, malattia che all’inizio del XX secolo era causa di circa 160.000 morti all’anno nei soli Stati Uniti. Ma anche altre patologie come la difterite, la febbre tifoidea, la scarlattina, erano responsabili di parecchie migliaia di morti all’anno, sopratutto tra i bambini

La morte infantile era un “fatto della vita” all’epoca. Era considerata una fatalità “naturale”. Nel 1900 la mortalità infantile era, negli USA, del 40%. Un terzo di tutti i morti erano bambini. Nel 1905 le statistiche riportano più di 100.000 bambini morti, di cui 39.000 deceduti per diarrea. Nel 1920 la mortalità infantile nelle più grandi città americane variava dal 72 a 203 morti ogni 1000 bambini.

L’introduzione della pastorizzazione del latte contribuì enormemente a risolvere questa problematica ma, nonostante gli evidenti benefici da essa portati, moltissimi furono gli oppositori all’applicazione estensiva di questa tecnologia:

Una delle obiezioni contro la pastorizzazione era che questa avrebbe potuto mascherare il latte di cattiva qualità, togliendo gli incentivi a produrre latte più sano da animali più controllati.

I produttori erano contrari, perché temevano gli effetti dell’aumento dei costi. In più i piccoli produttori si sentivano svantaggiati rispetto ai grandi perché pensavano di non riuscire ad ammortizzare i costi superiori e quindi di essere costretti a chiudere.

C’era chi sosteneva il “diritto a bere latte crudo” e chi sosteneva che la pastorizzazione rovinasse il sapore del latte.

E ai giorni nostri?

Attualmente le problematiche sanitarie nel consumare il latte crudo si sono ridotte moltissimo, le bovine da latte sono molto più controllate e la moderna tecnologia della refrigerazione permette di ridurre al minimo il rischio di contaminazione.

Tuttavia…

Tuttavia le intossicazioni alimentari sono all’ordine del giorno. Dal formaggio (nostrano o meno), dai salumi (biologici o no), dalle uova, dalle conserve (casalinghe o industriali), dal latte (crudo o pastorizzato), dal pesce (crudo o cotto), dai molluschi, dalla verdura (biologica o meno) e così via. E non c’è necessariamente una “truffa” dietro tutte queste infezioni. Il fatto è che mangiare, più che un “atto politico”, come dice qualcuno, è un “atto naturalmente pericoloso”, perché il rischio zero non esiste.

Quello che Dario Bressanini sottolinea nel sui articolo è che pretendere il rischio zero “a corrente alternata”, come spesso viene fatto dai sostenitori de “la sana alimentazione di una volta”, è scorretto intellettualmente e rischioso per la salute di tutti i consumatori.

 


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