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Cassazione: Vitaly Markiv assolto definitivamente

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La Cassazione ha assolto definitivamente Vitaly Markiv, soldato italo-ucraino accusato della morte del giornalista Andre Rocchelli. Della vicenda giudiziaria si è già parlato su Hookii (primo grado ◊ indagine del Corriere ◊ secondo grado).

La sentenza della Corte di cassazione arriva dopo una condanna a 24 anni in primo grado e una assoluzione in appello. Le reazioni al verdetto sono opposte. Il commento di Luigi De Biase sul Manifesto evidenzia una sentenza scaturita da questioni forma:

Un anno fa la Corte di Appello ha confermato praticamente per intero le conclusioni raggiunte dalle procure di Pavia e di Milano, stabilendo al tempo stesso l’innocenza di Markiv sulla base di quello che si può definire un errore nelle procedure: gli inquirenti avevano sentito in qualità di testimoni otto fra superiori e commilitoni dell’imputato, ma avrebbero dovuto considerarli possibili complici del crimine. È tecnica della giustizia. La giustizia ancora si attende.

Carmelo Palma su Linkiesta invece parla di una magra figura della stampa italiana, grancassa della propaganda filorussa:

in Italia è stato spettacolare come il pregiudizio anti-ucraino fomentato dalla propaganda russa abbia immediatamente attecchito anche nelle file di quella sinistra politico-intellettuale, che non appartiene certo ai sodali prezzolati del Cremlino e che però non ha mancato di condannare subito Markiv come responsabile del delitto e di montare attorno a una sciagura purtroppo frequente negli scenari di guerra – la morte di un cronista sulla linea del fronte – un caso ripugnante di “giornalisticidio” volontario, per trasferirlo tale e quale nelle aule giudiziarie.

In attesa della motivazione della Cassazione, Massimiliano Melley su MilanoToday prova a fare una sintesi della sentenza di Appello:

per i giudici d’Appello non sono sufficienti le prove che «Markiv fosse in servizio proprio nell’orario pomeridiano in cui i fotoreporter venivano uccisi o feriti». Se infatti è acclarato che Markiv si trovasse sulla collina, visti i turni di servizio di quattro ore «era l’accusa a dover provare che l’imputato fosse in servizio tra le 16.30 e le 17.30 del 24 maggio 2014».

E, come è noto, una prova in tal senso non c’era. C’è solo una foto, scattata circa un’ora prima dei fatti, che ritrae Markiv in divisa da combattimento e con un dispositivo di puntamento detto red dot, ovvero un mirino a punto rosso luminoso senza ingrandimento e senza reticolo attacchi: ed è, appunto, di un’ora prima. In ogni caso quella foto non dice alcunché su quanto Markiv avesse poi fatto, e dove fosse, all’orario degli spari contro i reporter.

Non sufficienti nemmeno le prove che Markiv prestasse servizio nella postazione indicata da un video tratto dal suo tablet. Se il soldato ha sempre negato che la sua posizione fosse quella, una conferma era invece arrivata durante la deposizione, in primo grado, di Bohdan Matkivskyi, suo diretto superiore sulla collina, e degli altri membri della guardia nazionale ascoltati al processo; ma, secondo la corte d’Appello, alla luce dell’imputazione, costoro «avrebbero dovuto essere esaminati» come imputati, «alla presenza di un difensore», e non come testimoni a conoscenza dei fatti.

La corte di secondo grado ha quindi dichiarato inutilizzabili tutte le loro deposizioni e, a questo punto, «non è dimostrabile con certezza che Markiv prestasse servizio proprio nella postazione di cui al video tratto dal suo tablet». E «il vuoto venutosi a creare a seguito dell’inutilizzabilità della conferma dibattimentale del suo superiore diretto Matwinsky e delle dichiarazioni di altri militari sul punto non è stato colmato da altro elemento di prova».


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