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Che fine ha fatto il nostro ceto medio

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Su suggerimento e a cura di @Lowresolution

Da tempo vari sociologi raccontano gli effetti sociali di una crisi non solo italiana: il tema centrale è la “proletarizzazione del ceto medio”. Ne parlano Ilvo Diamanti su Repubblica con un’analisi molto amara del declino sociale ed economico italiano, che riprende i commenti del Censis e di Domenico De Masi. Il tema centrale è il veloce impoverimento di quello che negli anni ’80 era il “ceto medio”, che dopo un trentennio di crescita, ora vede l’ascensore sociale sempre più bloccato, quando non funziona al contrario. In particolare De Masi arriva a dire che l’impoverimento ormai non riguarda più solo il ceto medio ma tocca anche la piccola borghesia, i commercianti, i piccoli imprenditori e i professionisti. Tutto questo, sommato agli  atavici ritardi del nostro sistema socio-economico, sta generando un’enorme diffidenza per il futuro e per ogni cambiamento, visto come foriero di peggioramenti, e un crescente senso di disillusione e rancore che attraversa la società di italiana e che rischia di spaccarla.

Nel 2006, giusto un decennio fa, 6 su 10 si definivano “ceto medio”. Ora non è più così. Anzi: lo è sempre di meno. E in questo modo il clima di fiducia nel futuro frena. L’ottimismo si raffredda. Soprattutto fra gli operai, i pensionati, le casalinghe. Tra loro, la componente che si sente scivolare in basso, nella gerarchia sociale, negli ultimi anni è aumentata di 17 punti. Dal 48 si è allargata fino al 65%. Quasi due operai su tre, dunque, si considerano ai margini della stratificazione sociale. Mentre coloro che si sentono “ceto medio” sono diminuiti di 20 punti. Erano metà, nel 2011. Oggi sono il 30%. Parallelamente, fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi il processo di “cetomedizzazione” si è rafforzato. Ancor più, presso i liberi professionisti.

 

Immagine da Wikimedia Commons

 


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