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Chiese non più chiese

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Vatican News pubblica un’intervista di Antonella Palermo a Tomaso Montanari nella quale lo storico, autore del libro “Chiese chiuse”, mette in risalto un fenomeno sempre più frequente nelle nostre città: la chiusura delle chiese. Montanari analizza il problema e propone delle soluzioni, mentre due studi ci presentano la situazione di Pisa e di Venezia.

Nell’intervista a Vatican News, l’autore si sofferma sulle radici e l’entità del fenomeno, su alcuni ricordi autobiografici, sul ruolo della pandemia nella riscoperta del valore di questi luoghi e su alcune modalità per restituire loro vita nuova. Le chiese – spiega – ci fanno passare dall’io al noi, ci proiettano nella dimensione, tanto necessaria, della pausa.

All’origine dell’abbandono c’è un problema di diminuzione del numero di praticanti, delle comunità cattoliche e dei sacerdoti stessi. Il vero pericolo per questi edifici secondo Montanari è di avere solo due tipo di destino: andare in rovina oppure diventare oggetti di mercato.

Questa logica binaria è terribile e colpisce i corpi umani ma colpisce anche le chiese che sono quanto di più vicino, io credo, ai corpi umani nella loro espressione vera di umanità. Sono, le chiese, in qualche modo ambasciatrici di un altro tempo, di un altro modo di vedere la vita. La quantità enorme di chiese dove noi non possiamo entrare prelude a ciò che succede dietro quelle porte: o un decadimento sempre più diffuso o chiese trasformate in tutt’altro e sottoposte a una sostanziale mercificazione.

Montanari sostiene che le chiese siano il luogo che preferisce per l’esposizione di opere d’arte, luoghi che restituiscono loro un significato.

Perché le chiese sono luoghi dove le opere d’arte ti sorprendono, ti aggrediscono come gli animali nella foresta, nel loro habitat naturale. Sono luoghi vivi dove ci sono ancora veri tutti i nessi di significato, ci sono i corpi dei committenti che hanno pagato perché quelle opere vegliassero sulla loro attesa di resurrezione; ci sono ancora tutti quegli oggetti, quei simboli che connettono le opere d’arte al loro senso, che è anche un senso che trascende i tempi e li incatena.

Durante la pandemia le chiese hanno ritrovato un ruolo secondo lo storico, anche se spesso sono state chiuse per ragioni di sicurezza sanitaria.

Io penso di sì, perché ci siamo trovati chiusi nel nostro privato e devo dire che è stato molto importante le chiese fossero aperte. In certi momenti era difficile permettere la liturgia ed era giusto che fosse sospesa, dolorosamente, per causa di forza maggiore ma le chiese, enormi nello spazio e, purtroppo tristemente semivuote, erano luoghi non solo per la preghiera privata ma anche per entrare in una dimensione che permetteva di pensare, di capire che questa emergenza sarebbe finita.

E la soluzione quale potrebbe essere? Montanari propone una riflessione, da storico dell’arte, un po’ controcorrente.

Intendo dire che la soluzione, io credo, non è un approccio esclusivamente turistico o erudito – e lo dice uno storico dell’arte – per esempio non dobbiamo immaginare che le chiese debbano acquistare le funzioni in un modo performativo: è giusto che ci possano essere dei concerti, oppure percorsi espositivi di arte contemporanea, gli stessi gesuiti lo hanno fatto a Milano… è tutto possibile e in parte giusto. Ma io credo che non dobbiamo nemmeno avere l’ossessione di riempire perché proprio nel loro essere vuote, le chiese ci riempiono di senso. Come le pause. E’ la scala smisurata delle grandi basiliche medievali che appare nello spazio urbano a stupire l’animo di chi ne è capace.


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