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Dispersi a Ponticelli

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In un articolo pubblicato su Il Tascabile Marzia Coronati, giornalista radiofonica e audio documentarista, discute il drammatico fenomeno della dispersione scolastica raccontando alcuni virtuosi progetti realizzati allo scopo di contrastarlo.

Con un mazzo di legnetti e una pistola di colla a caldo i bambini di Ponticelli hanno costruito una pista di biglie. La pallina si muove ovunque, a sinistra, a destra, sopra, sotto, attraverso. È una biglia libera di andare dove vuole, dicono, mentre loro per attraversare il quartiere devono procedere a zig zag, schivando incroci, strade, aiuole e isolati dove non sono graditi. Ponticelli, periferia est di Napoli, confina con San Giovanni e Barra: la città industriale, la culla della Cirio, la patria di Oreste Bordiga, un gomitolo di strade in altri tempi animate da operai, anarchici, socialisti, comunisti… poi la crisi, lo smantellamento delle fabbriche, la chiusura di cantieri storici come quello che realizzò il primo piroscafo nel Mediterraneo, primo anche ad attraversare l’Oceano Atlantico. Nel giro di una manciata di decenni i primati diventeranno altri: la camorra, il degrado, la delinquenza, la disoccupazione.

Il fenomeno della dispersione scolastica è risultato nel 2020 molto più alto della media europea: in Italia si è calcolata una dispersione esplicita del 13,1%, con picchi del 20% circa in Campania e in Sicilia.

Alcuni dati in realtà ci sono, anche se ancora non tengono conto delle conseguenze del COVID. Marco Rossi Doria, già ministro dell’Istruzione, prevede che le prime cifre sulle assenze relative ai due anni di pandemia non saranno pronte prima della metà del 2023, mentre i dati relativi alla perdita delle competenze saranno disponibili solo tra due o tre tornate di prove Invalsi. Per ora si può ragionare sui dati empirici, ma comunque molto significativi. Le testimonianze di chi lavora con e per la scuola dipingono una duplice situazione: da un lato è evidente che la pandemia ha aumentato la forbice delle disuguaglianze e che sono ancora una volta gli studenti più fragili a farne le spese – quelli dei quartieri difficili, delle aree interne, con bisogni educativi speciali, gli ottocentomila ragazzi stranieri che hanno necessità di una mediazione linguistica o semplicemente gli studenti che frequentano un istituto con una dirigenza assente o incerta. Dall’altro lato c’è stata una massiccia attivazione di realtà che si sono mobilitate creando nuove alleanze, rendendo evidente che la scuola da sola non ce la può fare ma che ha bisogno di una comunità educante che dovrà essere sostenuta e finanziata dal decisore pubblico in maniera sempre più strutturale.

A questo fenomeno va aggiunta la cosiddetta “dispersione implicita”: studenti che il diploma lo hanno conseguito, ma frequentando poco e male e senza raggiungere le competenze attese alla fine del ciclo scolastico.

“C’è stato un divorzio”, mi dice Cesare Moreno dopo più di un’ora di racconti e parole, “una separazione netta tra adulti e ragazzi, gli studenti non contano più nella scuola perché non credono nelle persone che la alimentano, non hanno stima nei professori: la prima cosa che dobbiamo fare, per ricucire questa ferita gigante, è darle un nome, individuarla, rendersene conto, per poi capire insieme come suturarla. Il COVID”, dice guardandomi serio negli occhi, “ci ha insegnato una cosa tra tutte: che Leopardi aveva ragione, che quel grande poeta non era un pessimista, ma era anzi un amante della vita che ha detto in versi a tutto il mondo che l’unica ricetta di fronte alla potenza della natura è la solidarietà, abbracciarci e vivere insieme felici ogni singolo momento.” La prima cosa da fare oggi, allora, nelle aule di scuola, è leggere insieme La ginestra, e godere del suo respiro vitale.

 


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