Reuters comunica che un tribunale kenyota ha ritenuto Meta passibile per citazione in giudizio riguardo alla violenza etnica in Etiopia durante la recente guerra civile.
Una causa è stata intentata da Abrham Meareg, il quale sostiene che suo padre, Meareg Amare, sia stato ucciso nel 2021 a seguito di post minacciosi diffusi su Facebook, legati al conflitto in Etiopia. Fisseha Tekle, un ricercatore di Amnesty International che lavorava sui diritti umani in Etiopia, ha dichiarato di aver subito anch’egli incitamento all’odio online.
Un articolo del Crisis Group analizza in profondità il ruolo di Meta e della sua piattaforma, Facebook, nel corso della guerra civile etiope.
Per comprendere come contenuti potenzialmente incendiari appaiono su Facebook, è utile esaminare l’approccio di Meta all’identificazione e rimozione dei post che violano i suoi standard. L’azienda dichiara di mirare alla rimozione di materiale classificabile come discorso d’odio, disinformazione e incitamento alla violenza.
La prima linea di difesa è un algoritmo che rileva e segnala contenuti problematici. Tuttavia, nonostante i miglioramenti, questo sistema può ancora promuovere post divisivi che si dimostrano popolari tra gli utenti. I risultati algoritmici vengono poi revisionati da moderatori umani. Meta si affida anche a partnership con organizzazioni della società civile e media per valutare i post. Le azioni possibili includono il declassamento dei contenuti (rendendoli meno visibili), la loro rimozione totale o il ban degli utenti che violano ripetutamente gli standard.
Considerando l’ampia e attiva comunità online dell’Etiopia e la sua politica conflittuale, appare chiaro che Meta non ha investito adeguatamente nelle infrastrutture di rilevamento e moderazione nel paese. Parte del problema potrebbe risiedere nell’approccio generale dell’azienda ai nuovi mercati: pur operando in oltre 110 lingue, la moderazione dei contenuti è offerta solo in circa 70, e nuove lingue vengono spesso aggiunte solo in condizioni di crisi.
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