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La Cina e gli influencer

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L’Australian Strategic Policy Institute pubblica una ricerca sulle strategie adottate dal Governo cinese per diffondere controinformazione sulla situazione nello Xinjiang.

I ricercatori (Fergus Ryan , Ariel Bogle , Nathan Ruser , Albert Zhang e Daria Impiombato) hanno seguito, in un periodo a cavallo tra il 2020 e il 2021, 153 account controllati dalla Repubblica Popolare Cinese. Questi account fanno parte di uno sforzo per far breccia nell’immaginario dei paesi stranieri, portanto un’immagine positiva della Cina.

Una novità nel modus operandi della RPC è l’uso non solo di social network occidentali (Facebook, Twitter, etc.) ma anche l’impiego di influencer non cinesi, come evidenziano queste pagine di archivio:

Il materiale — spesso video — viene amplificato dagli account (per esempio) delle ambasciate cinesi. I ricercatori dividono le produzioni in due filoni: una prima specie mira a dare un immagine positiva della regione dello Xinjiang, affiancando all traduzioni locali (cibo, cultura, costumi) i progressi portati dal Partito Comunista Cinese (treni ad alta velocità, infrastrutture, meccanizzazione agricola); un secondo tipo video è più direttamente politico e mira a smantellare le accuse di abuso di diritti umani ai danni della Cina, o a giustificarne o ridimensionarne la portata.

Un “gioco di specchi” insomma, dove la propaganda dovrebbe essere più efficace su di un pubblico occidentale in quanto narrata da vlogger, giornalisti, etc. in cui è più facile riconoscersi. ASPI ha creato anche un’infografica interattiva per visualizzare questo meccanismo.

L’uso di infuencer per modificare l’opinione pubblica non è nuovo (per esempio il governo statunitense ha pagato dei fitness instructor per invitare i cittadini a restare a casa). Come spiega la BBC, in questo caso però non sono ancora chiari i legami finanziari tra queste videoproduzioni e la Repubblica Popolare Cinese.


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