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La Netflix della Cultura

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Sabato sono circolate notizie su possibili tagli in Rai, per gestire le difficoltà economiche dell’azienda. La Rai è una cosa così eccezionale che tendiamo a non considerarla nelle analisi e nelle discussioni su cosa succede ai giornali. Il suo ruolo di “servizio pubblico” è addirittura stabilito formalmente (il suo fine è di “ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese”, scrisse la Corte Costituzionale), ma questa funzione è stata sempre più stiracchiata fino a farla diventare equivalente a “intrattenimento” dei cittadini. La maggior parte del lavoro della Rai – col contributo economico di tutti – è dedicata a far passare il tempo agli italiani che la guardano, con risultati informativi e di “sviluppo sociale e culturale” molto parziali quando non inesistenti: con minoritarie e preziosissime eccezioni. È una questione di cui si dovrebbe parlare: questi sono tempi in cui si protesta per la riduzione degli spazi di diffusione della cultura nei teatri, persino, ma il più potente ed efficace canale di diffusione della cultura e della conoscenza delle cose è sfruttato poco e male. Alessandro Baricco lo scrisse già nel 2009: sono tv e scuola i canali che il sistema pubblico possiede per informare e formare le conoscenze di un paese e la sua capacità di progredire.
La Rai però è una questione irrisolvibile di interessi e inefficienze, pensiamo tutti, dove servirebbe una rivoluzione vera: e anche un eventuale più esteso e completo servizio di informazione necessiterebbe comunque di standard di qualità che ora sono spesso da ricostruire. Ma questi sono o no mesi in cui si propongono rivoluzioni e si chiedono a tutti disponibilità a cambiamenti eccezionali? Notiamo almeno la contraddizione tra il chiederle e avere davanti agli occhi l’occasione più golosa per applicarle.

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