L’Imperial War Museum britannico ha organizzato una mostra sull’eredità delle Guerre del Merluzzo. Ma in che senso Islanda e Gran Bretagna combatterono delle guerre per il merluzzo?
Lo stesso museo lo spiega in un video, ma si può leggere un riassunto della vicenda anche su Atlas Obscura e su Iceland Review. A partire dagli anni ’50 del Novecento, per tutelare la propria industria della pesca, l’Islanda estese ripetutamente i confini delle proprie acque territoriali, impedendo ai pescherecci stranieri di pescare entro 4, 12, 50, e infine 200 miglia dalle proprie coste. A essere colpiti furono principalmente i Britannici, che si rifornivano in zona della materia prima del fish and chips. La Royal Navy fu mandata perciò a proteggere i propri pescherecci, ma la guardia costiera islandese non rinunciò per questo ad aggredirli, anche con spari e speronamenti. Nel corso della seconda guerra (1972-73) gli Islandesi ricorsero anche a dei tagliareti, che procurarono grandi danni economici agli avversari. Soprattutto, minacciando di lasciare la NATO (nella quale la loro posizione strategica era fondamentale), misero pressione diplomatica su Londra, che ogni volta fu costretta ad accettare la situazione.
L’industria della pesca inglese andò in declino, ma anche quella islandese dovette presto affrontare problemi molto gravi di sovrapesca. Oggi le guerre del merluzzo sono ancora studiate da analisti militari, ma sono ricordate senza astio, come riporta la mostra:
Through this project, the fishermen of both countries were allowed to share their lived memories. There was no sense of blame but a strong one of comradeship, some regret and sadness, but joint reconciliation between UK and Icelandic fishermen and joint respect for the sea. Both sides knew how overfishing would affect the industry and subsequently each country’s fishing port community, and they knew there was only going to be one winner, with the blame for how this was handled lying to the politicians of the time.
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