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In un articolo pubblicato su Il Tascabile, Silvia Gola traccia un quadro delle condizioni lavorative nei settori dell’arte, dello spettacolo e della cultura.

Lavoro nell’editoria come freelance e qualche mese fa, su consiglio di una conoscente, mi sono iscritta a un paio di gruppi Facebook per emergenti del settore: è qui che ho scoperto che, accanto alle persone che svolgono il proprio lavoro e che danno dignità a ciò che fanno per guadagnarsi da vivere, questi gruppi sono altresì il terreno di coltura di tutti quegli individui convinti che lavorare a un libro sia un gradevole passatempo per il quale non serve compenso economico, visto che è così bello “avere a che fare con le parole”, “svolgere mansioni intellettuali”, “prendere parte al processo di nascita di un testo” – tanto per citare alcune delle romanticizzazioni più in voga.

Nel corso dei mesi ho avuto modo di leggere di tutto: autori esordienti furiosi perché trovano ingiusto che editor e correttori di bozze vogliano farsi pagare quando, invece, “Questi lavori si fanno per passione e non certo per soldi”; e ho visto anche lavoratori dell’editoria e aspiranti tali proporre i propri servizi in una spaventosa corsa al ribasso scandita a colpi di “Edito 3 pagine per 1 euro!”, “Io sono un’editor seria, mentre chi vi chiede troppi soldi si approfitta della vostra arte”, “Autori, fatevi avanti! Mi sto ancora facendo le ossa e correggerò il vostro manoscritto gratuitamente”.

Perché arrabbiarsi, però? Non è pur vero che lavorare con e per passione è sempre meglio che essere occupati in settori diversi da quelli che ci interessano, per i quali sentiamo la vocazione, e per i quali siamo disposti a immolarci senza avere niente in cambio? Come scrive Bertram Niessen, sono i lavoratori dei settori creativi e culturali quelli che hanno iniziato a vivere “inseguendo un sogno di realizzazione personale in un costante equilibrismo tra la ricerca dell’autenticità (…) e l’iper-precarizzazione delle condizioni lavorative e di vita”.

Immagine da PxHere


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