Su Le Monde diplomatique, Benoît Bréville parla della libertà di parola in occidente e nel mondo.
Bréville incomincia con un episodio recente sulla censura, offerto dalla cronaca politica statunitense.
Trump, che è stato cacciato dalle reti sociali alla fine del suo primo mandato, ha giurato di ripristinare la libertà di parola negli Stati Uniti (galvanizzando i suoi sostenitori, le cui opinioni spesso oltraggiose erano state bandite dai campus progressisti e dalle piattaforme più grandi della rete).
A sei giorni dall’inizio del suo secondo mandato, Trump ha bloccato l’insegnamento alle reclute dell’aeronautica militare statunitense sul ruolo degli aviatori neri nella seconda guerra mondiale. Tre giorni dopo, mentre alcuni termini cominciavano a scomparire dai siti web governativi — diversità, esclusione, genere, socioeconomia, sottorappresentati — un nuovo ordine esecutivo ha preso di mira gli studenti stranieri che esprimono sostegno ai palestinesi, ora bollati come «manifestanti pro-jihadisti».
Per Bréville questo rigurgito contro la libertà di parola non è una specifica solo di Trump. L’«internazionale della censura» ha portato insieme una curiosa compagine formata da «autocrati, democratici e burocrati».
Questo avviene nel silenzio — anzi con l’entusiasmo — anche dei politici di orientamento liberale:
In Francia, 200 esponenti di spicco della borghesia liberale — tra cui un ex presidente, due ex primi ministri e una schiera di sindaci e deputati della destra e del Partito socialista — hanno chiesto di «proteggere gli ebrei formalizzando per legge l’antisionismo come nuova forma di antisemitismo» (Le Monde, 22 marzo 2025). In altre parole, criminalizzare un’opinione condivisa sia da attivisti di sinistra che da ebrei ultraortodossi.
Anche con l’invasione russa dell’Ucraina il copione è stato simile. C’è una guerra, un nemico, un campo di battaglia informativo. Il ragionamento è valso anche per altri conflitti:
(L)a guerra in Ucraina, presentata come uno scontro di civiltà tra Europa e Russia, è stata usata per giustificare la censura. Nel 2022 l’Unione europea ha vietato i canali russi RT e Sputnik per proteggere «i diritti e le libertà fondamentali» — una mossa applaudita da Emmanuel Macron, che non ha sollevato obiezioni quando, nel maggio 2024, il parlamento israeliano ha vietato l’emittente qatariota Al Jazeera.
Il progressivo giro di vite sulle opinioni permesse nel dibattito pubblico più ampio piace anche a stati più autoritari. Queste restrizioni, fino a poco tempo fa messe alla berlina dall’occidente, vedono vendicate le scelte politiche di autocrati e uomini forti:
La criminalizzazione degli oppositori politici, un tratto distintivo dei regimi autoritari, sta prendendo piede negli Stati democratici. In Germania, una legge entrata in vigore il 1° gennaio 2018 per regolamentare i social media stabilisce, secondo Human Rights Watch, «un pericoloso precedente per altri governi che cercano di limitare la parola online costringendo le aziende a censurare per conto del governo» (…). Quasi immediatamente, tre democrazie ineccepibili — Filippine, Singapore e Russia — hanno salutato la legge come esemplare.
Per Bréville quindi gli attori che stanno portando ad una compressione della libertà di parola hanno ideali e obiettivi agli antipodi, anzi molte volte si trovano su barricate contrapposte. I risultati delle loro azioni però convergono:
Dittatori permalosi e liberali illuminati, fanatici religiosi e attivisti indignati: tutti si uniscono alla stessa danza al ritmo delle forbici della censura, spinti da quella che Benjamin Constant ha definito «la notevole tendenza a gettare via tutto ciò che provoca anche il più piccolo inconveniente, senza chiedersi se questa frettolosa rinuncia non possa provocare un danno più duraturo». Perché la vittoria di una parte porta alla vendetta dell’altra. E l’esito di queste battaglie ha una sola certezza: la perdita della libertà per tutti noi.
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