Ultimamente tutti i giornali hanno parlato della dimensione italiana del fenomeno della “great resignation”, osservando la recente impennata di uscite volontarie dal lavoro che si è registrata dopo la pandemia, e non di rado azzardando ipotesi eziologiche spazianti dalla sociologia alla psicologia alla retorica dei giovani fannulloni o del reddito di cittadinanza.
Un articolo di Francesco Armillei su La Voce pare ridimensionare parecchio quello che sta succedendo. Infatti il tasso di dimissioni è ad un livello record solo se si guarda la banca dati del Ministero del lavoro, che parte dal 2012 (linea azzurra del grafico nell’articolo). Ma se si ricorre ad altre fonti che offrono (sia pure indirettamente e con qualche caveat) una serie storica che inizia più indietro nel tempo, si vede come la situazione attuale non abbia nulla di eccezionale (linea gialla nel grafico); anzi il tasso di dimissioni recente è addirittura al di sotto di quanto non fosse a metà del primo decennio del secolo.
Semmai guardando i dati si vede che al contrario l’anomalia pare essere stata il bassissimo tasso di dimissioni che si è protratto per tutti gli anni ’10, nei quali chi aveva un lavoro qual che fosse tendeva a tenerselo ben stretto, dato il contesto di crescita asfittica e di disoccupazione elevata.
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