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Ho riletto di recente un nostro breve saggio uscito qualche anno fa su Nuovi Argomenti. Scrivevamo del potere trasformativo della letteratura, della Grande cecità di Amitav Ghosh e del disinteresse del mondo culturale per la crisi climatica: “non solo siamo ciechi di fronte a trasformazioni che superano le nostre capacità percettive, ma chi dovrebbe raccontarle – scrittori, divulgatori, artisti in generale – le ignora. O inizia a occuparsene con grave ritardo”.

Il tono era apodittico eppure posso dire che già allora non fossimo completamente d’accordo con noi stessi. MEDUSA è una miscela di cose: scriviamo di cultura e natura, di nuovi immaginari ibridi, finiamo spesso per parlare anche di attivismo e di giustizia climatica. E da questa prospettiva, quando ci avviciniamo a scrittori e romanzi, viviamo una contraddizione.

Perché istintivamente abbiamo sempre diffidato di una visione utilitaristica della letteratura, di una visione “civile” e “morale” della letteratura. Allo stesso tempo ci sembrano persuasivi, però, anche molti discorsi (e ricerche) su quella che potremmo chiamare “predisposizione narrativa” del cervello umano, cioè quell’inclinazione invincibile che si manifesta nel modo in cui gli esseri umani si interessano al mondo e cercano di decodificarlo e abitarlo: gli esseri umani vivono costruendo storie.

Esistono allora storie più “giuste” di altre? Storie che sarebbe “bene” raccontare, per aiutarci a sopravvivere in epoca di crisi economica, sociale o climatica? Ed è questo che dovrebbero fare anche i libri, i romanzi, e non solo le narrazioni politiche?

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