A cura di @Festina Lente.
Le Nazioni Unite hanno approvato una risoluzione sulla tragedia dei Rohingya, ma è presto per dire se qualcosa cambierà.
I Rohingya sono una minoranza etnica birmana, di origini indo-europee e religione prevalentemente musulmana (ma in parte induista). La minoranza ha negli anni subito una serie di persecuzioni, che hanno raggiunto l’apice nella crisi iniziata nell’Ottobre 2016 e che continua a tutt’oggi. Si stima che prima della recente crisi i Rohingya fossero circa un milione (ossia circa il 2% della popolazione complessiva della Birmania, a larga maggioranza buddista, e che per circa il 4% è musulmana). Attualmente, più di 600,000 Rohingya sono fuggiti in condizioni disperate verso il Bangladesh. L’UNICEF ritiene che più di 300,000 bambini vivano in uno stato di malnutrizione ed in condizioni igienico-sanitarie estreme. I motivi della persecuzione dei Rohingya non sono solo religiosi, ma vanno cercati anche nell’ostilità della minoranza verso il complesso sistema di diversi livelli di cittadinanza in uso in Birmania, fortemente discriminatorio per le minoranze e per gli stranieri, descritto in questo articolo del Washington Post.
Sino ad ora la comunità internazionale non è stata in grado di esercitare pressioni sufficienti sul Governo del Myanmar per fermare la pulizia etnica. Mentre il Premio Nobel per la pace birmano Aung San Suu Kyi è stata fortemente criticata per il suo atteggiamento estremamente prudente (sulla sua posizione è possibile leggere questo articolo del Guardian), i Paesi occidentali sono rimasti in attesa e quelli a maggioranza musulmana hanno avuto un atteggiamento misto. L’Arabia Saudita ad esempio ha inviato aiuti, ma ha evitato toni troppo duri, forse tenendo in considerazione la sicurezza dell’oleodotto recentemente completato che la connette alla Cina e passa per lo Stato di Rakhine, la regione birmana dei Rohingya. Sull’argomento e sui altri complessi interessi economici coinvolti è possibile consultare questo articolo del Times of India/Independent.
Le cose comunque sembra stiano timidamente cambiando.
Alcuni Paesi musulmani si stanno mostrando sempre meno disposti a tollerare i metodi del Governo birmano. Fra questi la Turchia di Recep Erdoğan, che ha parlato di “genocidio” (la Turchia sta anche inviando aiuti umanitari), e l’Iran (vedi questo articolo di SputnikNews). In particolare, potrebbe avere un ruolo determinante la presa di posizione di Ramzan Kadyrov, capo della Repubblica Cecena. Il carismatico leader il mese scorso ha organizzato una manifestazione contro le violenze in Birmania (che è possibile vedere sulla sua pagina instagram) in cui ha ferocemente criticato il Governo del Myanmar (vedi questo articolo su Deutsche Welle). La protesta si è poi estesa ad altre regioni della Federazione Russa con importanti minoranze musulmane. Secondo The Diplomat, dopo un periodo di sostanziale disinteresse alla questione, Mosca potrebbe ora optare per una politica di maggiore pressione verso il Myanmar: ciò avrebbe un effetto propagandistico favorevole fra i musulmani russi, toglierebbe visibilità a Kadyrov pur mostrandosi sensibile alle richieste cecene, ed avrebbe anche effetti positivi per quanto riguarda i rapporti con gli altri Paesi del Medio Oriente.
Questa settimana, le Nazioni Unite hanno votato all’unanimità una risoluzione in cui si esprime “profonda preoccupazione” per la situazione birmana. La mozione, appoggiata con forza da Francia e Regno Unito, è stata però ammorbidita tenendo conto delle obiezioni della Cina, che difende l’attuale Governo birmano. Sull’argomento è possibile leggere questo articolo del Guardian. Intanto però la pulizia etnica continua e l’argomento non sarà in discussione all’incontro dell’ASEAN.
Immagine da Flickr.
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